Faccio i conti con questa me stessa tutti i giorni.
La ritrovo la notte, in sogni pieni di gente, gente che appartiene al mio passato, che ho conosciuto ma con la quale non ho avuto molti rapporti, la ritrovo in luoghi confusi, di luoghi riconosciuti ma senza ragione di essere lì, in quella situazione.
Mi riconosco, in ogni sussulto, respiro di condanna, dolore in punta di spillo, eterna speranza, sorriso ricercato, ossa ricostruite, nel mio corpo da salvare.
Ascolto la mia me stessa razionale, che programma, che organizza, ma non prevale più ormai. La ascolto per istanti, la seguo, ci credo ancora in lei, eppure ne sono distante, non mi appartiene. E' una me che vorrei seguire, a cui vorrei dire che ha ragione, che le cose funzioneranno così, ricordandosi di come si disegna il grafico della funzione di una retta.
Ma quella me vive da sola, è un pezzo che si è staccato nel mondo, è autonoma, non ha più bisogno di me.
Può farcela così, va nel mondo, senza di me. E funziona.
L'ho cresciuta, è maturata, va in proporzione all'età, è la me che ci si aspetta di incontrare. Sempre.
Ma l'ho abbandonata.
Ormai da un pò.
Ciò che scelgo di raccontare è ciò che rimane di me oggi. Non la minima parte. La parte più grande, quella insondabile, quella incomprensibile, la parte piena di dubbi e di domande, che non ha certezze.
Quella più facile da attaccare, da appendere ad un muro, da raccogliere per cercare di salvarla.
Io non devo essere salvata.
Non cerco soluzioni.
Sono in viaggio alla ricerca di una parte di me che ancora non conosco, cado nel frattempo, faccio errori, mi guardo indietro, cerco luce indietro, perchè non è vero che è stato solo buio, e faccio errori, nell'insindacabile bisogno di completarmi, per tornare a ricongiungermi finalmente con la parte che, matura, viaggia da sola. Nel bisogno di completarmi.
Sto imparando ad accettare che l'intercessione, al di là della mia Fede (in qualcuno, in qualcosa), guarisca le mie ferite e mi regali nuova vita. Accetto mani sulla mia pancia, preghiere sussurrate commosse, lacrime e abbracci stretti. Accetto il silenzio intorno a me. Osservo. Chi ha la soluzione, che sia razionale, che sia di Fede. Invidio per questo. Imparo.
A lasciarmi andare a pianti a singhiozzo, sola, al centro di una scala stretta, dopo che mani sconosciute hanno toccato il mio cuore e la mia pancia, chiedendo che io sia completata.
Che è la mia preghiera.
Che è la mia soluzione.
Sussurro, ogni sera, parole lette in un cartoncino, come i mantra che recito durante le lezioni di yoga, dando corpo alla luce che avverto dentro.
Mi pongo domande. Tante. Perchè io. Perchè dovrei essere ascoltata e da chi poi. Perchè la mia richiesta dovrebbe valere più di quella di mio marito, o dei miei genitori o delle tante persone che chiedono per noi. Perchè di nuovo tutto dipende da me? Perchè una grazia non dovrebbe essere esaudita anche se io non la richiedo. Perchè dovrei farlo, io che ho tutto, che ho cuore e testa per salvarmi, quando ci sono persone che non hanno nulla e che hanno molto più bisogno di me?
I miei figli mi hanno attraversata. Parte di loro vive in me. Non riesco ad ignorarli. E questo non vuol dire non riuscire a lasciar andare. I miei figli sono andati via. Sono esistiti talmente poco che la maggior parte della gente non considera nemmeno la loro esistenza. Non ho tombe sulle quali piangere. Non le cerco.
Non ho bisogno ora di questo. Il tempo è passato, ed è stato un tempo sufficientemente lungo per potermi permettere di ricostruirmi intorno ai vuoti che hanno lasciato. Ho imparato a riconoscere i segni dei loro passaggi, e questo mi basta. E' tanto per me. C'è chi non ha nemmeno questo. E così si muore.
Io non muoio perchè li chiamo "figli". Lo so che è un termine che infastidisce. Lo so che mi dipinge come una donna ancorata ad un esistenza fatta a metà. Ma non è così. Il mio bisogno di riconoscerli mi impone l'obbligo di vivere per il mio futuro, e vivere nel migliore dei modi.
Parlarne mi consola.
Io lo posso fare solo qui.
Dare voce alla loro esistenza mi è proibito.
Quando posso farlo, quando possiamo farlo, crolliamo, sia io che lui, da soli, al centro di una stretta scala, a casa di una santa, scomodata per dare voce al nostro distinto istinto di genitori mancati. Crolliamo e piangiamo, sotto il peso dei giudizi, delle condanne, delle parole non richieste che pesano come macigni. Come fosse facile svegliarsi tutte le mattine e non giudicarsi da soli per come scegliamo di andare avanti, incerti se sia il modo più corretto per riprendere a camminare, nella ricerca spasmodica di raggiungerci, per completarci.
Thanks for reading & sharing Lenglish
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HI???